Ecco l’articolo in cui, secondo il giudice, Travaglio ha diffamato Previti

Il giornalista Marco Travaglio e’ stato condannato a otto mesi di reclusione, con sospensione della pena, e a 100 euro di multa per diffamazione nei confronti dell’ex deputato Cesare Previti. Il processo era scaturito da un servizio, intitolato “Patto scellerato tra mafia e Forza Italia”. A Travaglio, che dovrà risarcire Previti con 20 mila euro, e’ stata inflitta una pena addirittura superiore alle richieste del pm (500 euro di multa). Il giudice ha anche condannato Daniela Hamaui, all’epoca dei fatti direttore responsabile del settimanale, a cinque mesi di reclusione (anche per lei sospensione della pena) e 75 euro di multa.

Di seguito, pubblichiamo l’articolo in cui, secondo il giudice di Roma Roberta Di Gioia, Marco Travaglio ha diffamato Cesare Previti, apparso sul settimanale ‘L’Espresso’ il 3 ottobre del 2002

Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi.

Ecco il programma politico di Cosa Nostra. Semplice, elementare, addirittura banale: «amnistia di cinque anni. Indulto di tre. Erano commissione giustizia. Ora dovrebbe farla il nuovo governo».
Nel febbraio 1994 un boss di primissimo piano lo confida punto per punto a un colonnello della Dia, che al termine di ogni colloquio lo annota via via sul suo taccuino di appunti. L’amnistia e l’indulto – gli stessi obiettivi di cui si torna a discutere oggi, con la proposta Biondi-Taormina, già sottoscritta da diversi parlamentari del centrodestra e del centrosinistra per placare la rivolta nelle carceri – sono alla pagina 47 di quel taccuino. Poco prima, a pagina 32, si legge: «Quelli i Forza Italia hanno promesso che in caso di vittoria entro 6 mesi regoleranno ogni cosa a loro favore. Palermitani dietro le stragi, siciliani dietro gli attentati in Italia».
Pagina 36: «La Fininvest ha pagato un miliardo di tangenti a Santa Paola (boss della mafia catanese, ndr) dopo l’attentato incendiario che ha subito lo stabilimento Standa a Catania. Rapisarda-Marcello Dell’Utri». Pagina 42: “Prov. (Provenzano, ndr) molto cambiato, parla di pace sintomo di debolezza. Spera in Forza Italia fra sette/5 anni tutto dovrebbe ritornare un po’ come prima». Pagina 49: «Andranno contro il partito o i partiti dei magistrati, la gente non ne può più, mancano i lavori delle grandi aziende c’è solo repressione lotta alla mafia e nient’altro in alternativa protesta operaia e manifestazioni destinate a crescere, aspettano nuovo partito o schieramento».
Il boss “gola profonda” si chiama Luigi Ilardo, è nato a Catania nel 1951 ed è il cugino nonché il braccio destro di Giuseppe “Piddu” Madonia, il capomafia di Caltanissetta vicinissimo a Bernardo Provenzano. Lui stesso, Ilardo, si vede e comunica spesso con Provenzano. L’ufficiale che raccoglie le sue rivelazioni è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio (in seguito coinvolto in un processo a Genova su presunti blitz antidroga “pilotati” nel Savonese). Le prime confidenze sono dell’ottobre 1993. Pochi mesi dopo le ultime stragi, quelle dell’estate, a Milano, Firenze e Roma. E pochi mesi prima della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Soprattutto di questo parla Ilardo: della presunta “regia superiore” delle stragi e dei presunti accordi fra Cosa Nostra e uomini di Forza Italia.
Gli appunti del colonnello Riccio (388 pagine), travasati in un raspporto firmato dall’ex numero due del Ros Mauro Obinu, non riceveranno smentite. Ma solo riscontri e condanne per gli uomini di Provenzano (la sentenza del tribunale conferma il “giudizio di affidabilità sull’operato del Riccio e sulla correttezza dello stesso” nella gestione di Ilardo). Ora quelle carte sono state depositate dalla Procura di Palermo nel processo contro Dell’Utri.
Riccio contatta Ilardo nel settembre 1993, nel carcere di Lecce. Il boss ne esce nel gennaio 1994, per motivi di salute, e torna in Sicilia. Ormai fa il doppio gioco. Mancano due mesi alle elezioni del 27 marzo, poi vinte da Berlusconi. E il boss s’incontra segretamente con Riccio, svelandogli in presa diretta la campagna elettorale di Cosa Nostra. Dopo le stragi e la cattura di Riina rivela: «Provenzano, Pietro Aglieri e le altre famiglie palermitane di erano schierati contro Bagarella, colpevole di seguire ciecamente la politica sanguinaria di Riina. che aveva inasprito la reazione dello Stato e condotto allo sbando Cosa nostra e al fenomeno del pentitismo. Bagarella era isolato. Provenzano, nascosto a Bagheria, aveva fatto sapere alle ‘famiglie’ siciliane di stare tranquille e di non esporsi ad attività criminali avventurose, ma di aspettare tempi migliori, forieri di un contesto politico stabile e più garantista nei confronti della criminalità organizzata».
Ilardo racconta al colonnello anche come Cosa Nostra decise di votare nel 1994. «In Caltanissetta, i ‘palermitani’ avevano indetto una riunione», in cui si era deciso che «tutti gli appartenenti alle varie organizzazioni mafiose del territorio nazionale avrebbero dovuto votare Forza Italia». Come mai? «I vertici avevano stabilito un contatto con un esponente insospettabile di alto livello nell’entourage di Berlusconi. Questi, in cambio del loro appoggio, aveva garantito normative di legge a favore degli inquisiti appartenenti alle varie ‘famiglie’ mafiose, nonché future coperture per lo sviluppo dei loro interessi economici quali appalti, finanziamenti statali…».
Chi è l’ uomo «dell’entourage di Berlusconi»? La risposta è in un verbale firmato da Riccio il 21 dicembre 1998 davanti ai pm di Firenze che indagano sui mandanti occulti delle stragi: «Nel marzo-aprile 1994 ho detto a Ilardo: per caso l’uomo dell’entourage è Dell’Utri? Lui mi ha fatto la battuta, guardandomi: “Lei le cose le capisce! Poi ne riparleremo. Vedrà quanti ne passeremo”.». Le stragi dovevano servire «per mettere sotto i politici», che «facevano promesse su promesse» a Bagarella.
Il 27 marzo 1994 Berlusconi vince le elezioni e diventa presidente del Consiglio. Ilardo spiega a Riccio che «molta della credibilità del Provenzano all’interno di Cosa Nostra sarebbe dipesa da quanto sarebbe riuscito a ottenere a seguito delle promesse ricevute . dagli appartenenti al nuovo apparato politico che aveva vinto le elezioni in cambio dei voti». Dopo il 27 marzo tutto cambia. Racconta Riccio: «Ilardo mi ha detto: non dobbiamo fare più attentati eclatanti. Gli imprenditori ci aiuteranno, nel tempo, con l’abolizione di determinati articoli (del codice, ndr). “Quando noi saremo al potere . ha detto il referente . entro sei mesi manterremo fede a quelle proposte”». Il nuovo governo non farà in tempo a fare nulla: durerà meno di 7 mesi.
Intanto Ilardo svela il nascondiglio di una decina di superlatitanti e li fa arrestare. Il 31 ottobre 1995 avverte Riccio che sta per incontrare Bernardo Provenzano in persona, in un casolare a Mezzojuso. Riccio, appena passato al Ros, chiede ai superiori i mezzi necessari per il blitz. La risposta è fredda, interlocutoria: non intervenire, ma limitarsi a “osservare” anche perché Ilardo non vuole portare addosso microspie e non è sicuro chi incontrerà. Su questo episodio la versione di Riccio si differenzia da quella degli uomini del Ros ed esiste una indagine del pm palermitano Antonino Di Matteo.
Nel marzo 1996, alla vigilia delle elezioni politiche (quelle poi vinte da Prodi), Ilardo rompe gli indugi e accetta di diventare un collaboratore di giustizia. Confesserà tutti i suoi crimini ed entrerà con la famiglia nel programma di protezione. Il 2 maggio lo conferma in un incontro nella caserma del Ros a Roma, dove il generale Mori lo presenta ai procuratori Caselli, Principato e Tinebra. Questi fissano il primo interrogatorio formale per il 15 maggio. Ilardo torna in Sicilia per mettere a punto gli ultimi dettagli. Avverte i famigliari. Consegna a Riccio i “pizzini” (bigliettini) del suo carteggio con Provenzano. I due si vedono ancora il 10 maggio, all’aeroporto di Catania. Poche ore dopo, alle 21.30, Ilardo viene assassinato da due killer davanti a casa sua.
Quello che avrebbe potuto diventare un altro Buscetta non parlerà più. Una fuga di notizie, quasi certamente di provenienza “istituzionale”, ha avvertito Cosa Nostra del pericolo incombente. Solo Riccio può ridargli la voce. Cosa che fa attraverso i suoi appunti tutti scritti con inchiostro verde e le testimonianze. Senonchè, nel marzo 2001, viene convocato nello studio del suo avvocato, Carlo Taormina, per una riunione con Dell’Utri e il tenente Carmelo Canale, entrambi imputati per concorso esterno in mafia. Riccio denuncia subito il fatto alla Procura di Palermo: «Si è parlato di dare una mano a Dell’Utri. Io avrei dovuto dire che l’Ilardo non mi ha mai parlato di Dell’Utri come uomo di mafia, vicino a Cosa Nostra». In più Riccio deve dimenticarsi la mancata cattura di Provenzano. In cambio gli viene promesso un aiuto per rientrare nell’Arma e per ottenere “la rimessione del mio processo”. «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». Taormina ammette il colloquio ma nega quelle pressanti richieste al cliente. In ogni caso, Riccio cambia avvocato.
Riccio e e il suo ex difensore Taormina si rivedranno presto, a Palermo, per testimoniare al processo Dell’Utri.

Quinews

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