Fiat “gli aiuti di Stato”
L’analisi di Fabiano Schiavardi su http://www.lavoce.info/ finalizzata a chiarire quali i doveri di Fiat e quali quelli dello Stato: «La vicenda Fiat rappresenta una cartina di tornasole della capacità del paese di mantenere sul territorio italiano il quartier generale, e una parte sostanziale della produzione, di una multinazionale nata e cresciuta in Italia. Se invece di lavorare a un progetto di ampio respiro si continuerà a invocare la responsabilità sociale e ad addossare alle imprese oneri che sono di competenza dello Stato, senza neppure fornire una controparte infrastrutturale e istituzionale adeguata, a quella di Termini seguiranno altre chiusure.
L’argomentazione tipica nel dibattito sul destino del polo industriale della Fiat a Termini Imerese è che l’azienda di Sergio Marchionne ha ricevuto tanti soldi dallo Stato e quindi ha il dovere di perseguire fini “sociali” e, in particolare, di tenere aperto uno stabilimento che produce in perdita. È una logica sbagliata, che può portare solo a sprecare altri soldi pubblici e a mettere il piombo nelle ali di una delle poche imprese italiane che sta tentando di competere sul mercato internazionale in uno dei settori più difficili.
Purtroppo, è la logica preferita dalle parti sociali e in particolare dal governo nella gestione delle crisi. È la stessa logica con cui è stata affrontata la crisi Alitalia. Si chiede all’impresa o agli imprenditori di mostrare “coscienza sociale”, facendo scelte antieconomiche in episodi di crisi industriale; la politica promette implicitamente compensazioni su altri tavoli, utilizzando bastone e carota secondo la bisogna. È l’approccio che detta la linea nel caso di Termini Imerese: utilizzare gli incentivi per ricondurre Fiat a più miti consigli.
AUTO, UNA QUESTIONE EUROPEA
Ragionare in termini di “doveri morali” di Fiat genera solo confusione e non aiuta ad affrontare il problema. Se ci sono contratti d’area o di programma che riguardano Termini Imerese rispetto ai quali Fiat è inadempiente con la chiusura dello stabilimento, vanno fatti valere. In caso contrario, bisogna cambiare approccio. La questione degli incentivi e quella dell’insediamento produttivo siciliano vanno affrontate separatamente, in modo trasparente e senza accordi sotto banco. Marchionne ha segnalato chiaramente di non voler sottostare alla logica di “contratti impliciti” e doveri morali non meglio specificati. La decisione irrevocabile di chiudere l’impianto di Termini Imerese va letta in questo senso: brucia i ponti nella trattativa col Governo rispetto alla possibilità di scambi trasversali. La dichiarazione di “agnosticità” rispetto al rinnovo degli incentivi è l’inevitabile conseguenza di questa scelta e segnala che la dirigenza Fiat non è disposta ad accettare ingerenze nelle scelte strategiche in cambio di sussidi. Sarà interessante vedere se questa linea di condotta sarà mantenuta nel caso il governo non rinnovi gli incentivi.
Il problema degli incentivi riguarda il riassetto del settore a livello europeo (e mondiale). Andrebbe affrontato all’interno di una più generale politica europea di settore. Dato che il problema è la sovraccapacità produttiva, incentivi alla rottamazione possono solo rimandare una ristrutturazione dolorosa. Inoltre, data la criticità delle finanze pubbliche dei paesi europei, l’eliminazione o quanto meno una riduzione veloce degli incentivi sono la strategia preferibile. Ma va concordata fra i paesi produttori per evitare distorsioni alla competizione in un momento cruciale per il riassetto del settore. Tutti sembrano essere d’accordo sull’auspicabilità di una gestione europea del settore, ma nessuno sembra fare niente in questa direzione.
UN FALLIMENTO DA ANALIZZARE
Termini Imerese rientra nel più generale approccio alla gestione delle crisi industriali, particolarmente importante in questa fase. Come ho già sostenuto su lavoce.info , uno dei problemi dell’economia italiana è la difficoltà ad allocare efficientemente i fattori produttivi. Mantenere in vita artificialmente realtà produttive decotte è il modo più semplice per gestire emergenze sociali nel breve periodo. Tuttavia, se non si risolvono le questioni alla radice della crisi aziendale, il problema è solo posticipato, spesso a caro prezzo. Nel lungo periodo, si inibisce il processo di riallocazione e si condanna il sistema a una bassa produttività. Piuttosto che gestire le crisi caso per caso senza un approccio generale, serve un sistema di ammortizzatori che riduca i costi sociali e faciliti la transizione dei lavoratori da impieghi a bassa produttività ad altri a più alto valore aggiunto. Nel caso specifico di Termini Imerese, la crisi è aggravata dal fatto che riguarda un’area in cui il lavoro scarseggia. La politica economica si dovrebbe preoccupare di dare una prospettiva di sviluppo a quell’area industriale. Nella miglior tradizione della creatività italiana, le proposte sembrano non mancare. Manca invece un’anali precisa delle ragioni del fallimento del progetto auto, necessaria per capire come impostare una politica di riqualificazione dell’area. L’impianto di Termini Imerese soffre di problemi di scala, di mancanza di un indotto adeguato e di logistica. Mentre la scala ottimale dipende dal tipo di attività, indotto e logistica sono aspetti che riguardano qualunque produzione industriale: se non si affrontano e si risolvono questi aspetti non c’è progetto fantasioso che tenga. Perché non si è generato un tessuto produttivo locale sufficientemente robusto? È un problema di legalità? Di capacità imprenditoriali? Di finanza? E perché è così costoso trasportare merci da e per Termini Imerese? Ci sono responsabilità delle autorità locali in termini di infrastrutture mancanti? Senza risposte chiare a queste domande le discussioni sul futuro di Termini sono chiacchiere che preparano un nuovo fallimento. Sarebbe importante che il ministero per lo Sviluppo economico commissionasse un rapporto sulle cause del fallimento dell’insediamento produttivo rispetto a esperienze analoghe che hanno funzionato. I vertici Fiat hanno sicuramente un’idea precisa del perché produrre un’automobile in Sicilia costi mille euro in più che in altre parti d’Italia. Anche le autorità locali, i lavoratori e i sindacati hanno molte informazioni su cosa non funzioni. Il rapporto dovrebbe essere commissionato ad un’autorità terza indipendente, in grado di individuare i problemi ed eventualmente i responsabili. I tempi dovrebbero essere brevissimi, entro fine febbraio, in modo da dare un contenuto concreto agli incontri previsti sul futuro dell’area a inizio marzo. Progetti seri e che non ripetano gli errori del passato sono prima di tutto un dovere nei confronti delle migliaia di lavoratori che vedono a rischio il loro futuro, la cui angoscia cresce di pari passo all’incertezza e alla confusione che circonda la gestione della crisi.
Iniziano a circolare richieste alla famiglia Agnelli di fare un passo avanti nella gestione di Fiat a spese di Marchionne, troppo rigido nella trattativa sul futuro dei siti produttivi italiani. Mentre a parole si critica il flusso di soldi pubblici dati in passato a Fiat, nei fatti si rimpiangono i tempi in cui questi soldi garantivano un atteggiamento morbido da parte della dirigenza della casa torinese in termini di “responsabilità sociale”. Ah, i bei tempi dei contratti impliciti! Quel modello, oltre a costare caro al contribuente, aveva portato Fiat sull’orlo del fallimento. Oggi, la vicenda rappresenta una cartina di tornasole della capacità del paese di mantenere sul territorio italiano il quartier generale, e una parte sostanziale della produzione, di una multinazionale nata e cresciuta in Italia: non si vive solo di piccole e medie imprese. Se invece di lavorare a un progetto di ampio respiro si continuerà a invocare la responsabilità sociale, a proporre scambi sottobanco e ad addossare alle imprese oneri che sono di competenza dello Stato, senza neppure fornire una controparte infrastrutturale e istituzionale adeguata, alla chiusura di Termini ne seguiranno altre. Il campanello d’allarme suona forte e chiaro: diverse multinazionali stanno annunciando la chiusura di impianti. Anche Fiat si è preparata una exit strategy dal paese evidente a tutti, a parte, sembrerebbe, ai responsabili di questa partita».