Greenpaece: ONU indaghi su traffico rifiuti italiani
«Il porto di Eel Ma’aan, 30 km a nord di Mogadiscio, è stato costruito (da imprenditori italiani) interrando nei moli centinaia di container di provenienza assai sospetta» è quanto sostiene l’inchiesta di Greenpeace “The toxic ships” – Le navi tossiche- oltre a fornire elementi che possono contribuire a fare chiarezza sulle esportazioni di rifiuti dall’Italia (e dall’Europa) verso i Paesi in via di sviluppo e in particolare nell’area mediterranea e verso l’Africa. Greenpeace chiede all’ONU di intraprendere una valutazione indipendente della presunta discarica di rifiuti tossici e nucleari in Somalia e in particolare nell’area del porto di Eel Ma’aan. L’indagine si inserisce tra le attività dell’Osservatorio per un Mediterraneo libero da veleni, istituito in Italia lo scorso febbraio da numerose Associazioni ambientaliste e del mondo della pesca insieme a comitati e istituzioni scientifiche consapevoli che il capitolo delle “navi dei veleni” potrà essere chiuso solamente dopo una comprensione approfondita del contesto e delle motivazioni economiche e politiche che hanno facilitato il proliferare dei traffici illegali di rifiuti attraverso i nostri mari.
Greenpeace ha compilato un esauriente riassunto della vergognosa epopea dei trasporti di scorie tossiche e radioattive smaltite illegalmente soprattutto in Africa negli ultimi 15 anni. In molti casi, le denunce di Greenpeace e di molti altri (comprese Agenzie Internazionali come l’UNEP – United Nations Environmental Program) hanno bloccato casi eclatanti. In altre occasioni, questi vergognosi carichi sono finiti “dispersi in mare”. Probabilmente, di molti casi non abbiamo mai saputo nulla. In questo rapporto è tracciata anche l’evoluzione di questo traffico che, da attività individuali, si è organizzato attraverso una serie di nomi (di persone e imprese) spesso segnalati ad investigatori e magistrati ma che non di rado l’hanno fatta franca: il sospetto che “la rete” operi ancora non può non affacciarsi. Faccendieri e affaristi qui menzionati, sono talvolta ancora attivi. Difficile sperare in una spontanea redenzione. Dall’epoca delle prime “navi dei veleni” (1987-1989), con nomi di navi ormai noti (dalla Lynx alla Radhost, alla Jolly Rosso, Cunski, Rigel, solo per citarne alcune) si passa a nomi di soggetti imprenditoriali come la ODM (Ocean Disposal Management), la Instrumag AG, la International Waste Group SA, la Technological Research and Development Ltd basate in Svizzera, Lichtenstein, Inghilterra ma non estranee alla creazione di imprese sussidiarie in esotici paradisi fiscali, come le British Virgin Islands o Panama. Le traiettorie di questi traffici sono spesso tortuose, interessando Paesi esportatori (l’Italia, ma anche altri Paesi europei), snodi più o meno noti (come la Romania) e concludendosi in posti assai diversi (dal Libano alla Somalia, da Haiti alla Costa d’Avorio) ma tutti accomunati da una cronica carenza di infrastrutture e politiche di controllo e gestione dei rifiuti.
Il capitolo delle “navi dei veleni” è tornato di recente alla ribalta per il clamore, seguito da un assordante silenzio, intorno al presunto ritrovamento del relitto della nave Cunski al largo di Cetraro, in Calabria, ufficialmente smantellata ad Alang (India), a seguito delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia. Sui dubbi relativi all’identificazione del relitto con il piroscafo “Città di Catania” (costruito quasi mezzo secolo prima e affondato durante la Prima Guerra Mondiale) si è già espresso l’Osservatorio per un Mediterraneo libero da veleni, che è costituito da una dozzina di associazioni. Altri dubbi sono emersi considerando che, dopo le prospezioni della Regione Calabria, le ricerche governative sono state condotte da una nave (Mare Oceano) di proprietà di un gruppo armatoriale (Attanasio) uno dei cui esponenti è stato coinvolto nel “Caso Mills”, ben noto alle cronache italiane.
Greenpeace ha raccolto elementi che indicano che il governo italiano avrebbe respinto l’offerta da parte del Ministero della difesa britannico di mezzi e personale tecnico altamente qualificati (e a quanto pare meno onerosi in termini economici di quelli della Mare Oceano). Questa informazione non è mai stata resa pubblica. Come i termini del contratto con la nave del gruppo Attanasio. Il rapporto infine offre al pubblico delle testimonianze dirette, incluse alcune fotografie mai pubblicate finora, che offrono ulteriori riscontri sulla scandalosa vicenda del traffico di rifiuti verso la Somalia. E’ noto che l’intreccio tra corruzione, traffici di rifiuti ed armi che ha caratterizzato i rapporti Italo-Somali negli ultimi 20 anni è stato scandagliato da diverse istituzioni ed organismi di controllo italiani che, purtroppo, non sono mai stati in grado di fare giustizia. Greenpeace ritiene che l’opinione pubblica abbia ormai il diritto di conoscere appieno quanto faticosamente raccolto in tutti questi anni da magistrati, investigatori, parlamentari, giornalisti, semplici cittadini. Alcuni hanno pagato cara la ricerca della verità su queste vicende, come Ilaria Alpi e Miriam Hrovatin, uccisi tre anni prima che venissero scattate le foto che riveliamo. Ma ora esiste una mole impressionante di fatti e dati che, anche se pur non ha prodotto una verità giudiziaria, può permettere la ricostruzione di una verità storica ormai matura.
Queste testimonianze sono in possesso della Magistratura Italiana (e dovrebbero essere state rese note alle varie Commissioni d’Inchiesta del Parlamento) e, corredate di inequivocabili fotografie, dimostrano che il porto di Eel Ma’aan, 30 km a nord di Mogadiscio, è stato costruito (da imprenditori italiani) interrando nei moli centinaia di container di provenienza assai sospetta. In una nota della polizia giudiziaria del 24 maggio 1999 si legge: «i container interrati nel porto di Eel Ma’aan erano pieni di rifiuti: fanghi, vernici, terreno contaminato da acciaierie, cenere di filtri elettrici». Non è tuttavia un problema solo italiano: tutta la politica comunitaria del controllo e della gestione dei rifiuti pericolosi è un fallimento. Lo dimostra il caso recente della nave Probo Koala che, per conto dell’Inglese Trafigura (adesso sotto processo in Olanda), dopo aver tentato di sbarcare il suo carico di morte ad Amsterdam se n’è sbarazzata nell’agosto 2006 ad Abidjan, in Costa d’Avorio, uccidendo non meno di sette persone e contaminandone gravemente almeno 30.000. Evidentemente, questo vergognoso capitolo non è affatto chiuso ed è ora che la verità venga a galla. E’ ora che si inizi a fornire risposte a tutte le domande poste negli ultimi 15 anni. Questa operazione verità è indispensabile per poter ricominciare a fidarci delle istituzioni pubbliche competenti dopo anni di falsità camuffate da mezze verità.
Le richieste di Greenpeace sono: Le Nazioni Unite devono intraprendere una valutazione indipendente della presunta discarica di rifiuti tossici e nucleari in Somalia e in particolare nell’area del porto di Eel Ma’aan;
L’UE deve rilanciare la realizzazione delle politiche di prevenzione della produzione di rifiuti pericolosi, uno dei pilastri delle politiche europee sui rifiuti;
Il governo italiano deve creare un forte coordinamento tra tutte le Autorità investigative (Procure della Repubblica) che hanno e stanno investigando sui temi del traffico di rifiuti pericolosi e radioattivi, con l’obiettivo di identificare e neutralizzare la rete di individui e imprese che gestiscono questi traffici verso I Paesi in via di sviluppo (oltre a usare il mare come discarica).
Il Ministero dell’Ambiente italiano deve creare una autorità operativa che faccia il censimento di tutte le attività di ricerca – finanziate da ministeri, regioni e enti di ricerca – riguardanti l’inquinamento da sostanze tossiche e radioattive sia in mare aperto, che nelle acque di superficie e nei sedimenti. Tale autorità dovrebbe anche raccogliere tutte le informazioni dagli operatori del mare inclusi i pescatori, in modo da elaborare e mettere in pratica una ricerca mirata sui possibili relitti delle cosiddette “navi dei veleni”. Questa ricerca dovrebbe fare uso di tutte le possibili risorse tecniche e specialistiche a livello nazionale e internazionale, e fare uso di istituti indipendenti di ricerca; Infine, sulla base dei risultati di questa ricerca, il Ministero dell’ambiente insieme al Dipartimento della Protezione Civile, deve preparare e mettere in atto una azione mirata a identificare e bonificare tutti i relitti delle “navi dei veleni” eventualmente identificati. Un tale piano dovrebbe basarsi anche sulle conclusioni di un gruppo di lavoro tecnico costituito da tutte le Autorità investigative, i Sevizi di intelligence presso il Ministero degli Interni col supporto dell’Istituto Superiore di Sanità. report-the-toxic-ship