Jamal che inghiottì il mare per fame
Questo racconto di Italo Arcuri è una riflessione sulle tragedie del mare che si susseguono con ritmo implacabile e assurdo. E’ liberamente ispirato a quanto avvenuto nella notte del 21 luglio scorso sulla nave che, partita dalle coste della Libia, è giunta a Messina, con a bordo oltre 600 persone. Secondo le prime testimonianze, durante il viaggio, in 150 hanno perso la vita.
Lo scafista senza scrupoli, tutto guadagno e subito, non perse un istante. Quando venne il suo turno, l’ultimo della sera, gli sfilò via dalle mani i 400 dollari raggrinziti e lo fece entrare nella stiva. Un’aria irrespirabile, tra il rumore assordante del motore pronto a partire da una costa libica e le esalazioni di monossido, accoglie Jamal.
La sera prima Jamal, 18 anni appena compiuti, zaino sulle spalle già bello e pronto, aveva avvisato i suoi: “Domani vado in Italia. Compro un biglietto per la Sicilia. Non preoccupatevi di me. Io qui non voglio più viverci. Ho fame di libertà. Una volta sistemato e guadagnato un pò di soldi chiamo per farvi venire…”.
Il padre non proferì parola, non poteva bloccare il giusto desiderio del figlio.
La madre lo abbracciò senza dire nulla. Le gocce di pianto se le fece scendere a notte fonda, senza farsi notare da nessuno.
A pensare ai suoi, ora, Jamal, ammassato con altre cinquanta persone, alcune delle quali con prole in grembo, in quello spazio squallido e angusto, viene attraversato da un profondo binario di malinconia e angoscia, che si tramuta in dolore quando con la mente torna agli anni dell’infanzia. Ha paura Jamal. Non lo ammette ma nel guardare gli altri passeggeri di questo viaggio di speranza ha il fottuto timore di non farcela. Pensa ai suoi coetanei, alle amicizie che lascia, alle ragazze dei primi baci, alla Libia sospesa sul nulla e alla sua famiglia, a sua sorella, di sei anni più giovane. Si fa forza con il ragionamento. Si dà forza nel pensare che, se tutto va bene, da lì a poco, per lui inizierà una nuova vita.
Sul ponte della nave c’è la “prima classe”. Quelli che la “speranza” la guardano dritta in faccia, quasi a darle del tu. Altri più fortunati di lui, con più soldi di lui, magari ingegneri o avvocati, hanno potuto permettersi quel posto privilegiato. La tariffa varia da mille a duemila euro. “Averceli…”, pensò. Ma questa è la vita, cosi vanno le cose e Jamal, purtroppo, non può farci nulla.
Dopo ore interminabili di tragitto, qualcuno nella stiva comincia a tossire, a sentirsi male. C’è chi suda freddo. Chi non ce la fa a trattenere la pipì. Chi vomita persino l’anima. Chi si sveglia di colpo da un sonno breve e abbozza un gemito di disperazione. I vagiti si moltiplicano… Diventano pianti collettivi, intervallati da singhiozzi consolatori. Manca l’aria. In due o in tre, i più in carne tra i viaggiatori, tentano di forzare il portellone della stiva, cercano di aprirlo, vogliono incamerare l’aria. Hanno bisogno di respirare. Hanno sete di vento, spazio e brezza.
Lo scafista senza scrupoli, insieme al suo compare, collega nocchiero senza ritegno, pensano ad una ribellione e intervengono da par loro: fanno pressione in controsenso sul portellone, premono per richiuderlo, lo schiacciano come per sigillare un disagio, come per tappare un’infamia, come per piombare una vergogna. Ci riescono a malapena, però. Dieci viandanti della sopravvivenza, compreso Jamal, riescono a fare capolino dall’altra parte, ad uscire fuori, a vedere l’aria. Sembra finita. Sembra… Il tempo della mattanza dura un istante. Uno dei due scafisti con un coltello comincia a scodellare fendenti verso tutto ciò che gli capita a tiro, compreso Jamal. Proprio come si fa con i tonni nella “camera della morte”. Li uccide e poi li butta in mare. La furia omicida, in pochi attimi, si trasforma in tragedia.
Di Jamal, che in arabo vuol dire “bellezza” – figlio di Abbas e Muna, fratello di Kamila – e che inghiottì il mare per fame non resta che un corpo che galleggia… Uno fra tanti.